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WRIGHT E GEHRY, PARLANO LA STESSA LINGUA ?

 

Se per un attimo ci dimenticassimo di essere “architetti”, calandoci per intero nei panni di quelle persone che vivono la propria esistenza sociale ed ambientale senza curarsi troppo degli autori o delle scelte culturali che hanno contribuito ad influenzarla, potremmo scoprire il peso ed il valore intrinseco e reale di ogni opera di architettura. Infatti sono i “destinatari” ed i “fruitori” che possono vantare il diritto di esprimere pareri o giudizi sullo spazio architettonico o sulla riuscita o meno del tessuto urbanistico in cui tale spazio si esprime.

Per giudicare la riuscita o meno di un’opera architettonica dovrebbero essere usate le stesse modalità che qualificano le relazioni tra gli esseri umani: conoscere-dialogare-approfondire.  Occorre inoltre distinguere il risultato storico-artistico di una certa realizzazione dalla sua utilità (in quanto destinata a risolvere i bisogni dell’essere umano). E’ fin troppo evidente che la massima aspirazione del progettista sia quella di poter soddisfare entrambe le esigenze, sebbene nella realtà ciò si verifichi molto raramente. Inoltre occorre fare distinzione tra grandi e piccole opere, la cui disparità di utenza determina l’inevitabile ampliamento dei bisogni da soddisfare.

Wright e Gehry, senza dubbio tra gli architetti più rappresentativi del secolo scorso, hanno entrambi operato nel privato come nel pubblico. Tralasciando le “precedenze” storiche che assegnano a Wright il primato dell’invenzione di un nuovo modo di vivere lo spazio, non possiamo fare a meno di evidenziare come “il primo” Ghery tentasse di esprimere nelle sue opere quanto aveva appreso dalle opere di Wright, non riuscendo peraltro ad inserirsi correttamente nel pensiero tracciato dal maestro. La comune partenza  delle rispettive realizzazioni dalla casa di abitazione non lascia però intravedere che insignificanti punti di contatto tra le due personalità. Nelle grandi opere, inevitabili sbocchi professionali per tutti coloro che iniziano dal basso, si delinea con maggior chiarezza la distanza tra i due personaggi. Perché allora quando si parla di architettura organica i due nomi vengono citati come appartenenti alla stessa corrente di pensiero?

Attraverso la burocratica tendenza dell’essere umano volta a fabbricare categorie ed elenchi contabili, con la presunzione di chiamare, ad esempio, eclettici tutti coloro che non rientrano in certi canoni stabiliti, si dimentica troppo facilmente che taluni artisti od architetti, come nel nostro caso, seguono dei percorsi molto spesso tortuosi e contraddittori, prima di arrivare ad un risultato particolarmente significativo. Ghery, a mio avviso, è uno di questi: molte sue opere sono banali, scontate, ove la ricerca non appare se non evidenziata in analisi retrospettive che cercano di dimostrare un percorso intenzionale, anche dove esiste soltanto una semplice applicazione delle proprie modeste capacità lavorative. Poi l’esplosione con il Guggenheim Museum di Bilbao. Si, esplosione: è come se dai quattro punti cardinali una forza misteriosa avesse sospinto, deformandoli, i profili rigidi e compatti degli edifici della città novecentesca. Esplosione come nel Nazionale-Nederlander office building di Praga, ove, da una sequenza quasi regolare dettata dagli edifici del continuum, si passa ad una distorsione del costruito che sembra irreale per quanto è in movimento. Le opere di Wright sono diverse: nella logica di una simbiosi tra costruito e natura l’architettura si espande per poi riaggregarsi sempre in forme nuove, non lasciando spazio però all’improvvisazione (così cara a Gehry). In Wright gli spazi in movimento si aggregano, in Gehry gli spazi si dividono per poi aggregarsi nel movimento; entrambi rompono con la cultura delle “certezze” e si avventurano nella ricerca e nella sperimentazione. Ecco allora che cadono le catalogazioni e gli schemi ed affiora inequivocabile il contenuto delle opere dell’uno e dell’altro: la relatività dell’architettura. Lo aveva già fatto Francesco Castelli, detto il Borromini, qualche secolo prima negando, con la “vite” posta sopra la lanterna di S. Ivo alla Sapienza di Roma, lo spazio chiuso e statico della vicina cupola del  Pantheon.

 

LE “VELE” DI MEIER

 CHIESA “ Dives in Misericordia “ a Roma, località “Tor Tre Teste”

R i c h a r d   M e i e r   architetto

 

 Certo, si rimane stupiti quando si entra nel cantiere in fase di ultimazione! Le vele, bianchissime, suddivise in pannelli prefabbricati a doppia curvatura, assumono e trasmettono, per la loro singolare forma, sentimenti contrastanti all’osservatore che ne percorre lo sviluppo, sia all’interno che all’esterno; non per questo possiamo definirle dinamiche, anzi, la loro evoluzione è scontata, geometrica, strettamente geometrica; non priva, comunque, di movimento “allusivo”, sia in senso orizzontale che verticale, anche se bidirezionale.

Più che una soluzione architettonica   ( intendendo con questo termine il tentativo di fondere i contenuti formali e funzionali di un’opera) i manufatti sembrano il frutto di una ardita elaborazione tecnica, complessa a tal punto da richiedere, per la sua realizzazione, addirittura l’invenzione di un ponteggio mobile speciale, costruito e brevettato per l’occasione. 

Sentimenti contrastanti, dicevamo,  che si provano stando all’interno delle vele e guardando il cielo:  non si avverte più  la dimensione e lo spessore del cemento che, così modellato, si torce come un foglio di carta, deformandosi sotto l’azione del vento ; oppure dall’esterno, assumendo, ora, l’aspetto di una forza che spinge dal basso (per concludersi, senza riuscirci, in sommità) ora,  la forza e la consistenza di una barriera invalicabile, di un triplice muro impenetrabile che protegga e conservi l’ambiente sacro posto al suo interno.

Leggerezza, potenza, consistenza, impenetrabilità, conservazione….in questo l’architetto Meier è stato perfettamente coerente con le aspettative del Vicariato di Roma.

 

COME VERRA' CHIAMATA L'ARA PACIS ?

R i c h a r d   M e i e r   architetto

 

 Anche in quest’ occasione si è manifestato l’antico vizio italico di considerare le nostre città come musei a cielo aperto,sminuendo, attraverso una sorta di provincialismo che esalta gli artisti del passato e declassa i contemporanei, il valore di Architetti di indiscussa professionalità. Certo, una cosa è progettare un complesso Parrocchiale (Dives in Misericordia ) in un contesto urbano periferico, altra cosa è intervenire nel centro di una grande città storica che non ha eguali nel mondo;la differenza in realtà esiste solo per i maggiori vincoli formali e strutturali che la città storica impone; per il resto, un architetto valido è tale, in qualunque situazione ambientale debba intervenire. Disturba, in sostanza, il giudizio prima della percezione fisica dello spazio costruito, la condanna o l’assoluzione prima di aver vissuto l’esperienza di una visita.

  Se escludiamo lo scempio di sconsiderati sventramenti urbanistici del ventennio fascista ed i non meno delittuosi inte rventi degli anni 60 del secolo scorso che hanno deturpato la continuità storica della città, in Roma coesistono,vicinissimi, manufatti di epoche diverse, distanti cronologicamente tra di loro, ma mirabilmente integrati; ogni momento storico, ogni espressione sociale e politica del tempo si è pietrificata, lasciandoci un patrimonio storico-artistico davvero unico al mondo. Ma il nostro tempo, come verrà rappresentato tra due, trecento anni, o g iù di lì?

 Forse come il tempo del malgoverno e della corruzione che non ha prodotto altro che degrado architettonico,pur mantenendo in piedi le opere del passato, in quanto impossibilitato culturalmente e politicamente ad arricchire con nuove opere la storia dell’uomo? O forse come  il tempo di transizione da una cultura ricca e fervida d’idee ad un’altra che ancora non conosciamo? E’ triste pensare che questo oggi noi siamo; cultura di transizione, cultura amorfa, cultura del nulla….eppure nel resto del mondo non è così!?

L’opera di Meier aprirà sicuramente un acceso dibattito: potremo condividere o meno i suoi diaframmi di luce, potremo criticare od approvare l’impatto ambientale o l’inserimento urbanistico, ma mai prima di averlo vissuto di persona! Uno solo, comunque, sarà il giusto verdetto: quello del Popolo di Roma, lo stesso popolo che trasformò il Vittoriano in una -Macchina da scrivere-

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